New York, aprile 2019: Esme cerca di allontanarsi dal seno della madre. Jennifer McClure è rimasta in ospedale per 21 giorni dopo la nascita di Esme, a causa di complicanze legate al taglio cesareo, quindi l’allattamento di Esme è iniziato sia con latte materno che con quello artificiale. Nonostante gli sforzi di Jennifer, la neonata preferiva il latte artificiale e ha smesso da sola di attaccarsi al seno della madre a otto mesi.
Anche nel suo stato di torpore post-sedativo, Chandra Burnside era decisa ad allattare al seno il suo primogenito. Era il maggio 2010 e l’allora 29enne lobbista aveva appena partorito con un cesareo d'urgenza presso una struttura ospedaliera della Virginia.
Turbata dal fatto che il parto non fosse andato come previsto, Burnside era determinata ad avere successo con l'allattamento al seno. Decenni di ricerche hanno dimostrato che il latte materno garantisce ai bambini benefici vitali dal punto di vista nutrizionale e della salute, compresa la protezione da malattie come il diabete e dalla sindrome della “morte in culla”.
L'ASILO NIDO DI MAMMA SMERGO
Ma nemmeno l’allattamento regalò i risultati sperati. Burnside allattava e poi tirava il suo latte 24 ore su 24 per mantenere costanti le scorte, proprio come aveva appreso nel corso di 45 minuti frequentato durante la gravidanza. Eppure, dopo un paio di settimane, suo figlio continuava a non prendere peso.
Il pediatra aveva dunque esortato la donna a nutrirlo di più; e le aveva consigliato di integrare con latte artificiale nel caso non fosse riuscita a produrre sufficiente latte materno. Ma Burnside rifiutava l’idea di rinunciare all'allattamento esclusivo al seno.
Jennifer McClure e sua figlia Esme con il tiralatte usato durante la degenza in ospedale. Jennifer si tirava il latte ogni tre ore non potendo allattare al seno, ma la bambina ha sviluppato una preferenza per il latte artificiale.
Secondo i Centers for Disease Control and Prevention (centri statunitensi per il controllo e la prevenzione delle malattie), oltre l'80% delle neomamme subito dopo il parto tenta di allattare il figlio al seno. Tuttavia, dopo tre mesi, meno della metà allatta ancora esclusivamente al seno e solo un quarto lo fa per i sei mesi raccomandati dall'American Academy of Pediatrics. Molte mamme iniziano infatti a utilizzare, in parte o del tutto, il latte artificiale. Ma la carenza di latte in polvere causata dalla contaminazione batterica, che ha provocato un esteso richiamo di prodotto, ha messo in luce le comuni sfide che le donne che allattano al seno devono costantemente affrontare.
Sebbene le stime indichino che solo il 5-10% delle donne non sia fisiologicamente in grado di allattare, molte di più affermano di non produrre abbastanza latte o riferiscono qualche carenza nutrizionale nel loro latte che impedisce al bambino di crescere bene. Eppure, le ricerche sui motivi che portano l’allattamento al seno a fallire sono sorprendentemente poche e, come affermato da molti esperti in materia, anche il sostegno istituzionale per le donne che cercano di allattare è sostanzialmente minimo. A differenza dell'industria lattiero-casearia, che ha finanziato studi approfonditi sulla lattazione nei bovini, i ricercatori hanno a malapena esaminato in superficie la “questione” del latte umano.
Negli ultimi anni, tuttavia, la ricerca ha preso sempre più piede e gli studiosi stanno ora indagando su fattori come la genetica, l'esposizione ambientale e la dieta, con la speranza di ottenere risposte per le future generazioni di madri.
"La scienza si sta evolvendo così rapidamente che il prossimo decennio sarà di grande interesse per questo settore", afferma Shannon Kelleher, ricercatrice di scienze biomediche e nutrizionali presso la University of Massachusetts Lowell.
Alla ricerca di risposte, Burnside si era recata da un endocrinologo per capire se potesse avere una insulino-resistenza, che aveva sentito spesso associare a una scarsa produzione di latte. Sebbene gli esami avessero rivelato che la donna presentava alcuni marcatori legati alla sindrome dell'ovaio policistico, che può in effetti causare resistenza all'insulina, l'endocrinologo le aveva riferito di non aver bisogno di alcun farmaco per migliorare la sua sensibilità all'insulina.
Alla fine, Burnside si è unita a un gruppo di sostegno dove ha trovato incoraggiamento, ma nessuna risposta. Ha continuato ad allattare al seno, e con riluttanza ha integrato con il latte artificiale. "Stavo ancora annaspando", racconta.
All’occhio inesperto l'allattamento al seno può sembrare un’attività davvero basilare: la mamma solleva il bambino al petto, il piccolo si attacca e inizia a succhiare, giusto? Ma come ogni madre sa bene, l'allattamento è un processo complesso che può andare storto in tanti modi diversi.
"Si tratta di un'orchestrazione finemente regolata di diversi ormoni che si legano a recettori molto specifici e provocano reazioni assai precise", spiega Kelleher. Tutto ciò che va a interferire con queste reazioni "interrompe la lattazione, a volte anche nel giro di poche ore".
Il seno diventa completamente maturo solo durante la gravidanza, una condizione capace di inondare il corpo con un cocktail di ormoni che spinge i meccanismi per la produzione del latte a svilupparsi. Kelleher paragona le ghiandole mammarie a un grappolo d'uva: i dotti lattiferi sono i gambi e gli spazi vuoti dove si accumula il latte - gli acini - sono chiamati alveoli. In ogni seno ci sono circa una dozzina di questi grappoli, ognuno dei quali contiene due tipi di cellule. Le cellule all'interno degli alveoli producono il latte e le cellule muscolari che circondano queste strutture invece si contraggono per spingere il latte nei dotti.
Quando il bambino nasce, la rimozione della placenta provoca un improvviso calo dell'ormone progesterone, che attiva la produzione di latte.
Per rilasciare il latte, però, è necessaria un'altra complessa sequenza di eventi. Quando il bambino succhia il capezzolo, attiva impulsi nervosi sensoriali nel corpo della madre che rilasciano prolattina e ossitocina. Questi ormoni incoraggiano le cellule della ghiandola mammaria a rilasciare il latte. Per mantenere il processo di lattazione attivo, però, il bambino deve attaccarsi regolarmente al seno, altrimenti la ghiandola mammaria torna allo stato precedente alla gravidanza.
Quando Burnside è rimasta incinta del suo secondo figlio, nel 2012, aveva una conoscenza molto più approfondita dell'allattamento al seno: le sue difficoltà nell'allattamento del primogenito avevano indotto la donna a cambiare lavoro e a iscriversi a un corso di infermieristica per studiare nel dettaglio la scienza dell’allattamento.
"Nella mia mente quello sarebbe stato il grande punto di svolta", spiega. A differenza della sua prima gravidanza, Burnside era entrata in sala parto con la consapevolezza di tutte le potenziali "trappole esplosive", come le chiama lei, che possono ostacolare la produzione di latte. Tra queste, l'attesa troppo lunga prima di allattare il neonato e l'offerta di latte artificiale al posto del seno nei primissimi giorni di vita.
"È un momento molto critico per l'avvio dell'allattamento", afferma Parul Christian, direttore del programma di nutrizione umana della Johns Hopkins Bloomberg School of Public Health. Gli esperti raccomandano di allattare entro un'ora dalla nascita per avviare il processo di “segnalazione ormonale”. L'offerta di latte artificiale, inoltre, priva il neonato del colostro, la prima forma di latte materno che il corpo produce dai due ai quattro giorni dopo la nascita, ricco di nutrienti vitali, anticorpi e antiossidanti.
Molte donne possono superare i problemi di produzione di latte con il supporto e la conoscenza, afferma Ann Kellams, pediatra dell'Università della Virginia e presidente dell'Academy of Breastfeeding Medicine. E, invece, proprio come accaduto a Burnside, la maggior parte dei genitori alle prime armi riceve solo una formazione di base sull'allattamento al seno, e non sono i soli. Kellams afferma che anche la maggior parte delle scuole di medicina offre una scarsa formazione sulla scienza dell'allattamento. Durante la sua specializzazione in pediatria, racconta, le sessioni di formazione sull'allattamento al seno organizzate dal suo ospedale all'ora di pranzo erano condotte da rappresentanti di aziende produttrici di latte artificiale.
Kellams sostiene che se genitori e medici fossero meglio informati potrebbero sentirsi più tranquilli. Per esempio, potrebbero preoccuparsi di meno per una scarsa disponibilità di latte se capissero che la quantità di latte prodotta varia a seconda dello stadio di sviluppo del bambino - e che non sempre il bambino ha bisogno di grandi dosi. Inoltre, se molti genitori iniziano a integrare con latte artificiale non appena il latte materno appare scarso, questo può ritorcersi contro e far diminuire ulteriormente la produzione di latte.
"Bisogna segnalare fin dall'inizio ogni volta che il bambino ha fame, affinché il corpo sappia che deve iniziare a produrre latte", spiega Kellams. "Possono essere necessarie settimane per costruire le scorte. Non è come un interruttore che si accende e si spegne".
A volte la sfida può manifestarsi anche dalla parte del bambino. Condizioni come l’anchiloglossia - quando una fascia di tessuto lega la punta della lingua al pavimento della bocca - possono impedire al bambino di stimolare adeguatamente il capezzolo.
Secondo Kellams, i neogenitori non dovrebbero essere costretti a gestire da soli tutti questi potenziali problemi. Kellams incoraggia l'accesso a consulenti per l'allattamento, in grado di risolvere i problemi, e al sostegno istituzionale, come il congedo di maternità retribuito, che rende più fattibile la routine di allattamento e l’estrazione del latte senza interruzioni.
Ma anche l'accesso a un'assistenza sanitaria eccellente non è sempre sufficiente. Non lo è stato per Burnside. La donna ha superato circa due settimane di allattamento al seno del suo secondo figlio prima che il pediatra le indicasse che bisognava fare qualcosa in più. A due settimane, i neonati di solito bevono dai 60 agli 80 grammi di latte ogni due ore. A Burnside mancavano ancora circa 170 grammi di latte al giorno e nessuno aveva la minima idea del perché.
Esme Smith ignora il biberon con il latte materno. Jennifer ci teneva molto che la sua bambina prendesse il suo prezioso latte materno, ma il frequente uso del tiralatte ha avuto delle ripercussioni sul benessere della madre.
Kelleher sostiene che la biologia può provocare difficoltà nell'allattamento al seno in modi che la scienza sta appena iniziando a sondare.
Ci sono diverse condizioni mediche che notoriamente possono interferire con l'allattamento: gli interventi chirurgici al seno - che si tratti di mastectomia, ingrandimento o riduzione del seno - possono distruggere l'architettura della ghiandola mammaria, ed esiste anche una rara condizione in cui le donne non sviluppano abbastanza tessuto mammario durante la pubertà. I problemi alla tiroide, il diabete e la sindrome dell'ovaio policistico possono poi influire sui livelli ormonali, interrompendo la delicata interazione necessaria per la produzione di latte. Inoltre, è stato riscontrato che lo stress cronico impoverisce l'organismo dell'energia di cui ha bisogno per produrre il latte.
Ma secondo Kelleher esistono altri fattori biologici che possono influenzare la produzione di latte in una donna. Tra questi, i ricercatori indicano soprattutto la dieta. L'obesità e la malnutrizione influiscono entrambe sui livelli ormonali del corpo e Christian sostiene che la dieta di una madre può influenzare il profilo di grassi e vitamine presenti nel suo latte. Per questo motivo molte donne che allattano assumono integratori alimentari e vengono incoraggiate a seguire una dieta sana e a evitare improvvisi deficit calorici.
Kelleher afferma che c'è sempre maggiore curiosità circa il ruolo svolto dagli antiossidanti nel ridurre lo stress ossidativo, uno stato in cui gli elettroni “anomali” nel corpo "iniziano fondamentalmente ad attaccare diverse parti della cellula". Se questi elettroni uccidono le cellule della ghiandola mammaria, gli alveoli possono ridursi e tornare allo stato precedente alla gravidanza. Si ritiene che gli antiossidanti come il fieno greco, un ingrediente comune negli integratori per l'allattamento, aiutino a stabilizzare questi elettroni.
Quando si tratta di comprendere l'impatto della genetica sulla lattazione, tuttavia, Kelleher afferma che "siamo indietro millenni rispetto all'industria lattiero-casearia". Anni di ricerca hanno aiutato a identificare i geni nelle bovine che promuovono un contenuto proteico più elevato o una maggiore disponibilità di latte. Al contrario, secondo Kelleher, sono stati portati avanti solo alcuni sporadici studi sugli esseri umani.
La ricerca di Kelleher si è concentrata sul modo in cui le mutazioni genetiche influenzano il trasporto dello zinco nella ghiandola mammaria. Questo minerale è altamente concentrato nel colostro, il che suggerisce la sua importanza per i neonati. L'autrice sottolinea anche un altro recente studio condotto dai ricercatori della Penn State University che ha dimostrato come una variazione in un gene che produce la proteina lattaderina sia associata a un basso volume di latte. Ma non è ancora chiaro il perché.
"Non sappiamo nemmeno quale sia la funzione di questa proteina nella ghiandola mammaria, eppure le sue mutazioni sono associate a un basso volume di latte", afferma la ricercatrice. "Mi sembra una cosa importante da capire".
Similmente, Kelleher sottolinea che una vita di esposizione ambientale a sostanze chimiche, microplastiche e altre sostanze nocive potrebbe avere un impatto sia sulla quantità che sulla qualità del latte prodotto dagli esseri umani. Ed è incredibilmente difficile per gli studiosi identificare quale di queste esposizioni possa aver causato un danno.
"Ci sono molte cose che possono andare storte e che non riusciamo ancora a capire per una serie di ragioni sia sociali sia politiche e finanziarie", afferma la studiosa.
Storicamente è stato difficile per i ricercatori ottenere finanziamenti per studiare i fattori biologici che influenzano l'allattamento al seno. Questo è in parte dovuto alla stessa discriminazione di genere che si riscontra in altri settori dell'assistenza sanitaria, e Kelleher sostiene che risolvere i problemi dell'allattamento al seno, in generale, non sembra una questione urgente agli occhi dei finanziatori che – di fatto - considerano il latte artificiale un'adeguata alternativa in caso di emergenza. Ma anche prima che la crisi del latte artificiale mettesse in luce le debolezze di questa argomentazione, c'era già qualche indicazione a sostegno del fatto che le cose stessero cambiando.
Negli ultimi anni la tecnologia ha insegnato agli studiosi che il latte umano "è ricco non solo di sostanze nutritive, ma anche di tutti quei bioattivi che influenzano la salute del bambino, la sua crescita, la sua maturità e il suo sviluppo", afferma Christian. In un documento pubblicato l'anno scorso, insieme ai ricercatori della Bill and Melinda Gates Foundation e del National Institutes of Health, Christian ha sostenuto la necessità di comprendere più a fondo questa materia.
E i finanziamenti stanno iniziando ad arrivare. Nel 2020, la Fondazione Gates ha sostenuto la creazione dell'International Milk Composition Consortium, che si occupa di ottimizzare il valore nutrizionale del latte umano. L'anno scorso, poi, il National Institutes of Health ha istituito un proprio gruppo di lavoro sull'ecologia del latte materno, pubblicando un invito a presentare proposte di ricerca. Kellams afferma che anche l’Academy of Breastfeeding Medicine sta sviluppando un'agenda per affrontare le principali domande dei genitori sull'allattamento.
"Non lo facciamo solo per il gusto di fare scienza", afferma Christian. Una migliore comprensione della biologia del latte umano potrebbe cambiare la vita di milioni di donne in tutto il mondo e dei loro bambini, in particolare quelli che vivono in contesti a basso reddito dove la malnutrizione è molto diffusa.
Per Burnside, le rivelazioni che emergeranno da questa ricerca arriveranno comunque troppo tardi per la sua famiglia. Tre anni fa la donna ha dato alla luce il suo terzo figlio e ha ulteriormente rafforzato le sue conoscenze in materia di allattamento al seno diventando consulente certificata per l'allattamento.
Burnside aveva avuto un'emorragia post-partum, una condizione rara in cui la donna ha un forte sanguinamento nei giorni successivi al parto, fattore che notoriamente ritarda l'allattamento. Ma quando finalmente il suo latte è arrivato, le mancavano ancora dai 110 ai 170 grammi di latte. E lei non saprà mai con certezza, afferma, se in quel caso il problema fosse legato all'emorragia o se facesse parte di una condizione biologica più ampia.
"Avevo le competenze e la capacità per supportarmi da sola e una situazione lavorativa in cui potevo tirare il latte tutte le volte che volevo", racconta. "Avevo tutto, ma alla fine mi sono comunque ritrovata di fronte a un grosso punto interrogativo".
Questo articolo è stato pubblicato originariamente in lingua inglese su nationalgeographic.com.